Antje Schrupp im Netz

La festa segreta. La politica delle donne al potere in Germania

Relazione di Antje Schrupp al Grande Seminario di Diotima, Università di Verona, 21.10.2011. Der erste Teil erschien auch im Print in der Via Dogana Nr. 99, Dezember 2011

(Diesen Text in Deutsch lesen)

Negli ultimi dieci anni molte donne sono andate in importanti posti di potere in Germania. Non solo Angela Merkel, che è cancelliere da sei anni. Ma anche in molte altre istituzioni governative e sociali le donne si trovano in posizione di grande influenza, ad esempio nelle chiese, nelle università, nei tribunali e così via.

Non si tratta semplicemente di aver avuto tutto ciò per diritto né questa situazione può essere interpretata come un puro e semplice accesso al potere. Molte di quelle donne che si impegnano in partiti politici, in posizioni importanti all’interno delle istituzioni, hanno un forte desiderio di politica. Vogliono dare uno spazio e un peso alle loro visioni e idee anche all’interno della struttura tradizionale di potere.

Questo desiderio delle donne, con tutti i conflitti e le esigenze che fanno emergere, non è stato ancora ben analizzato nel dibattito che c’è stato su questi cambiamenti. Quello che si discute in genere sono le cifre, le quote e le difficoltà di accesso. Secondo me sarebbe molto più importante discutere che cosa le donne fanno in quei luoghi, che cosa vogliono, se riescono a cambiare qualche cosa oppure no. Che esperienza attraversano le donne nel loro tentativo di vivere e ancorare la loro politica nei luoghi di potere? Quali sono i conflitti che emergono quando, per esempio, ignorano le regole tradizionali del gioco di potere, perché vogliono fare un’altra politica e non sono interessate al potere in quanto tale? Che esperienze hanno acquisito? Oltre quali limiti si sono spinte?

Fare di questa domanda l’oggetto di una discussione politica è importante per rendere visibile il desiderio delle donne di fare politica in quei luoghi. Non è che vogliono tutte la stessa cosa. Per esempio, è ovvio che Angela Merkel ha un grande desiderio di politica, ma io non sono per niente d’accordo con quello che fa. Ma anche se gli scopi delle donne che fanno politica dentro una struttura di potere sono diversi e anche contradditori tra di loro, occorre che la misura del loro successo non sia quella che restituisce loro questa struttura di origine maschile, ma un altrove, un altrove femminile.

Perché se non troviamo un’altra misura – e dico “trovare” non in senso soggettivo, ma nel senso che questa misura fa parte di una discussione pubblica tra donne e forse anche con uomini – io vedo il pericolo che molte donne, quando fanno un’esperienza negativa o frustrante – cosa che è quasi inevitabile all’interno delle strutture di potere –, scelgano alla fine tra due possibilità, entrambe pessime: o rinunciano e si ritirano allora da queste istituzioni; oppure si sottomettono alle regole date, cioè lasciano sullo sfondo il loro desiderio di politica e si rassegnano alle costrizioni di fatto che esistono da prima. A partire dal fatto che il loro autentico desiderio sarebbe di rimanere all’interno delle istituzioni, ma con le proprie idee, proposte, forme culturali.

Io vorrei affrontare questa questione in due parti. Nella prima parte do una breve panoramica di che cosa è successo in Germania per quanto riguarda le “donne in posizione di potere” in questi ultimi anni. E di come tutto questo sia stato discusso politicamente. Nella seconda parte descrivo il dibattito che c’è stato e le proposte che abbiamo elaborato in questo senso.

Parte Prima

Il fatto che oggi è “normale” trovare una donna in una posizione di potere non significa che allora saremmo di fronte ad una partecipazione quantitativamente simile di donne e uomini in questi luoghi. In realtà gli uomini sono ancora in maggioranza. Ma è anche vero che le donne in posizione di potere non sono più qualcosa di speciale. Una donna al potere non è più l’eccezione alla regola, ma la normalità.

Ci sono molte donne al potere e diverse tra loro. Per questo una scienziata della politica o una cittadina che sia interessata, che abbiano entrambe il desiderio di capire la condotta personale di queste donne e valutarla, devono smettere di confrontarla con quella degli uomini al potere, e piuttosto metterla a confronto con le azioni di altre donne in posizioni di potere. Quello che oggi è visibile e si può valutare è dunque la differenza è tra donne che hanno potere istituzionale. E questo è sicuramente un fatto nuovo.

Ora, tutto questo emergere e svilupparsi di una situazione nuova è trattato in Germania sotto l’etichetta di questioni di “parità”. Per esempio ci sono dappertutto uffici per la parità. Ma quello che succede veramente è qualcos’altro. Quando questa primavera è stato festeggiato il centesimo anniversario della Giornata Internazionale della Donna, in molti luoghi c’erano celebrazioni per questa occasione. C’erano discussioni, lezioni, organizzate Varie volte in queste occasioni io ho proposto di non usare più parole come “uguaglianza” o “parità”, ma piuttosto di usare il termine “mediazione della differenza”. Perché in realtà è questo quel che facciamo e occorre fare in questi luoghi. E non ho sentito tra le donne nessuna che contraddicesse questa proposta.

Ma come si fa a mediare la differenza femminile in una struttura di potere?

Una cosa che ci può aiutare è che anche nel dibattito pubblico è ormai chiaro che occorre non solo che le donne prendano atto delle necessità delle istituzioni, ma anche il contrario, e cioè che le istituzioni si trasformino a loro volta. Purtroppo fino a questo momento questo è discusso solo relativamente al tentativo di conciliare lavoro e famiglia, mentre le differenze ci sono e sono molto più numerose. Comunque va bene così, credo che qualcosa stia iniziando.

Quest’estate per la prima volta una ministra federale – Kristina Schroeder della CDU – ha avuto un figlio e ha preso alcuni mesi di “permesso per maternità”. A gennaio anche Andrea Nahles, segretaria generale della SPD, ha avuto un figlio e anche lei non ha nemmeno lontanamente pensato di lasciare la carica politica. Il “doppio sì” – al lavoro e alla maternità -, come lo chiama la Libreria delle donne di Milano, è arrivato al più alto livello della politica.

Le donne, a cui sono offerte posizioni di rilievo di questo genere, sempre di più chiedono apertamente certe condizioni di vivibilità. In questo periodo Andrea Nahles lavora per garantire che i comitati politici non fissino appuntamenti ufficiali la domenica – e questo per avere più tempo libero la domenica. Una ministra del governo – Barbara Steffens dei Verdi del Nord Reno-Westfalia – ha affermato in un recente dibattito che, prima di prevista all’interno del Ministero una custodia per i bambini e di poter portare il piccolo alle riunioni.

Donne in posizione di potere si sono trovate quindi con delle buone opportunità per contrattare certe condizioni. Anche perché non si accetta più che nei luoghi siano presenti soltanto uomini. Una certa percentuale di presenza di donne è considerata un elemento di valore, la completa assenza delle donne è vista come il segno che qualcosa non sta andando bene.

Tutto questo risulta evidente nelle discussioni dopo il grande successo del nuovo “Partito Pirata”, che ha ottenuto il nove per cento di voti nelle elezioni a Berlino dello scorso settembre. Tra le 15 persone elette al suo interno figura solo una donna, e questo fatto ha subito aperto una serie di polemiche. Il numero basso di donne i questo partito, collocate nella sua fascia bassa, non è tanto sorprendente, perché finora si è presentato con assunti che interessano principalmente più uomini che donne – la libertà di Internet in particolare. Ma questo è risultato molto chiaro: qualsiasi organizzazione politica che vuole essere presa sul serio non può essere costituita quasi interamente da uomini. La società non lo accetta più.

In tale trasformazione non si parla solo di numeri, di quote e di parità, ma c’è anche la speranza che le donne cambino qualcosa di più sostanziale. È risultato molto chiaro in rapporto con la crisi finanziaria di due anni fa. Molti pensavano che le banche forse non sarebbero fallite se avessero avuto più donne in posizioni decisionali.

Lo sviluppo demografico è un’ulteriore questione, per la quale molti si stanno concentrano sulle donne viste come potenzialità. Si spera ad esempio che, con una maggiore percentuale di donne nelle imprese, venga meno il problema di quei capi, che sono uomini e che seguono l’antica strada “patriarcale”, in cui coloro che sono più anziani nei gradi della gerarchia devono stare automaticamente in gradi superiori rispetto ai più giovani. Una regola che è oggi difficilmente praticabile perché blocca i cambiamenti necessari.

Un esempio di come le istituzioni possono risultare vincenti, se fanno leva sulla differenza femminile, è la Chiesa evangelica in Germania. Due anni fa il suo consiglio ha eletto Margot Kässmann a suo massimo rappresentante. Una donna sulla cinquantina, che era Vescova, madre di quattro figlie, e che durante il suo mandato ha divorziato. Una donna che, a differenza ad esempio di Angela Merkel, fa parte del movimento delle donne e su questo non ha mai fatto sorgere alcun dubbio. Tutti quanti l’hanno amata. Le donne, perché finalmente una di loro rappresentava la chiesa, gli uomini, perché finalmente qualcuno riportava di nuovo posizioni etiche nel dibattito. È restata famosa la sua predica di Capodanno, nella quale ha criticato l’intervento militare in Afghanistan con parole ormai famose: “Niente sta andando bene in Afghanistan”.

Purtroppo non sappiamo se e in quale misura la Kässmann sarebbe riuscita a modellare l’istituto della chiesa in una forma sostenibile, perché si è dimessa dopo soli quattro mesi. È stata fermata, mentre guidava la macchina ubriaca. Si può dire che la Germania per un po’ di giorni sia stata sotto shock.

Cosa avrebbe fatto adesso? Avrebbe dato le dimissioni? Oppure rimaneva? Da parte degli uomini ci sono stati segnali contrastanti. Qualche sorriso, perché ora sì si sarebbe visto se le donne erano abbarbicate ai loro posti come gli uomini. Gli altri – soprattutto gli uomini della chiesa – avevano commentato che tutti ogni tanto commettono degli errori e l’avevano rassicurata che, se fosse rimasta, la sua dignità sarebbe rimasta in piedi.

Le donne erano ancora di più divise. Le femministe dell’eguaglianza la consigliavano di rimanere in carica – con l’argomento che molti uomini non si sarebbero certo ritirati in una situazione simile. La maggior parte delle donne invece era convinta che non poteva continuare come se non fosse successo niente, perché il suo comportamento era troppo grave, visto che aveva messo in pericolo la vita di altre persone. Ma tutte d’accordo che sarebbe stata una grande perdita. È successo che Kässmann si è subito ritirata, con la motivazione che dopo questo incidente non avrebbe più avuto l’autorità per rappresentare posizioni critiche.

L’incidente ha mostrato come le istituzioni siano poco flessibili, perché nella logica data non risultava possibile quello che era l’esito più desiderato, per lo meno dalle donne, ma credo anche da molti uomini. E cioè che Kässmann ammettesse pubblicamente i propri errori, ma anche mantenesse la carica. Ho fatto questa proposta nel mio blog: Kässmann doveva dimettersi, e poi semplicemente il Consiglio della Chiesa Evangelica avrebbe dovuto sceglierla di nuovo – attribuendole così autorità, pur avendo conoscenza dell’errore commesso. La mia proposta è stata oggetto di un acceso dibattito, ma l’idea generale era che questo non fosse possibile. Le istituzioni non funzionano così.

Io credo che sia un peccato che non si sia insistito di più su questo punto, cioè sul fatto che non ci piace che le istituzioni funzionino come funzionano. Per me quello che è successo con il “caso Kässmann” – dal punto di vista della politica delle donne –non è tanto una sconfitta, quanto un conflitto tra un desiderio femminile e il funzionamento “normale” delle istituzioni.

Un altro aspetto interessante. Molte donne hanno obiettato che bisognava prendere anche in considerazione che forse la Kässmann voleva in realtà rimanere al suo posto. È possibile che lei non fosse del tutto felice di essere sollevata da quell’incarico. Un’obiezione molto significativa. Ci tornerò dopo.

Comunque, colui che è succeduto alla Kässmann nell’incarico è un uomo veramente buono, con il grave inconveniente però di essere anche troppo discreto e “normale”. Nessuno parla di lui e di conseguenza neanche della Chiesa. Mentre Margot Kässmann si trova ancora in tutti i talk show, i suoi libri sono ancora bestseller. È molto chiaro che non è lei ad aver perso un incarico istituzionale, ma l’istituzione ha perso lei.

Dunque, pensando all’influenza femminile sulle istituzioni dove circola potere, in Germania c’è un bel po’ da festeggiare. La domanda ora è: che ne facciamo di questa situazione?

Il primo punto che suggerisco è questo. Diciamo che una festa c’è. Ma diciamo anche che sta prendendo piede molto meno di quello che ci si potrebbe aspettare.

Sembra che ci sia quasi un tabù nell’affrontare i cambiamenti in corso. Sono soprattutto le femministe a dire spesso che non è successo niente. Siamo ancora lontane dal 50 per cento, sostengono. Il progresso è limitato ad alcuni settori della società – politica, servizio pubblico, le chiese – ma non è cambiata una realtà importante come l’economia, dove effettivamente non si trova quasi nessuna donna nei consigli di amministrazione e in quelli di vigilanza. In questa prospettiva si dice: finora ci sono stati solo alcuni cambiamenti di abbellimento, ma in fondo, non sistema, non è cambiato ancora nulla.

Altre donne – e molti uomini – sostengono il contrario: l’emancipazione delle donne è ormai completa, la discriminazione abolita, per cui non occorre più discutere di questo. Esistono solo gli esseri umani, il sesso non importa più, la differenza sessuale non esiste, e quindi ammettere le donne nelle istituzioni pubbliche e aumentare la loro partecipazione è stata solo una questione di giustizia, ma non cambia nulla alla radice, perché le donne sono uguali agli uomini e fanno le cose come loro.

Anche se le due posizioni appena esposte sembrano contradditorie, in realtà sono completamente in accordo tra loro almeno su un punto. Affermano entrambe che ciò che è accaduto finora è del tutto irrilevante, non è degno di nota.

È per questo che è importante affermare che la grande partecipazione delle donne nelle istituzioni pubbliche non è secondario, ma è un evento che ha una grande forza storica, qualcosa di totalmente nuovo e unico nella storia del mondo, almeno negli ultimi 4000 anni.

Tuttavia in Germania ci sono alcune voci che criticano, a volte in modo molto forte, quello che è stato iniziato dalle donne nei cambiamenti istituzionali. Si tratta per lo più di uomini che vedono questi sviluppi con preoccupazione e considerano i cambiamenti come pericolosi o per lo meno problematici. Hanno coniato il termine “femminilizzazione” della società tedesca o anche il “Feminat” . Questi uomini osservano che i cambiamenti avvenuti attraverso la partecipazione delle donne al potere istituzionale sono qualcosa di sostanziale – e questo a loro non piace.

Un noto giornalista politico, un tempo della sinistra, scrive di Angela Merkel: “La battaglia tra i sessi in politica è decisa ormai da tempo. Sono finiti i giorni in cui governavano dei veri uomini. Oggi, invece, regna una ex-FDJ (che era l’organizzazione giovanile della Germania dell’Est, dove la Merkel ha vissuto fino alla riunificazione tedesca). La Merkel, che è figlia di un sacerdote, senza figli, e che nasconde il marito. A differenza dei suoi predecessori, non ha alcun programma politico, è piuttosto un passaggio di connessioni, un relè di stati d’animo”.

Molti uomini condividono questa valutazione, anche se a un livello più moderato. Per esempio Frank Schirrmacher, uno dei giornalisti più influenti della Germania, parlava pochi anni fa di un “crepuscolo degli uomini”, come si è parlato in passato di un “crepuscolo degli dei”. Aggiungeva che le donne, che sono ad esempio presentatrici di importanti talk show politici, sarebbero loro a guidare una specie di “industria della coscienza” nei media. Del resto non sono solo gli uomini più anziani a lamentarsi, quelli che hanno conosciuto la situazione precedente di supremazia maschile, ma anche molti giovani fanno propaganda contro la “femminilizzazione”, ad esempio nei forum di Internet, ed in un modo spesso molto aggressivo.

Questi uomini, dunque, vedono un cambiamento di segno, iniziato dalle donne, ma lo vedono come negativo, come una minaccia per il vecchio ordine, e rischioso perché mina meccanismi vecchi e solidi perché sperimentati. La loro critica non si rivolge semplicemente contro la partecipazione delle donne – al contrario, di solito sottolineano esplicitamente che sono a favore dell’eguaglianza. La loro critica nei confronti delle donne è che la natura della politica e lo spazio pubblico sono cambiati, perché si sono allontanati dalla tradizione “maschile” nello stile di prendere le decisioni, ad uno stile “femminile” fondato sulla moderazione. Angela Merkel viene spesso accusata di questo. Dicono che è volubile, manca di coerenza e fa un percorso a “zigzag”. È interessante notare che si sostiene al tempo stesso che governa in modo antidemocratico e quasi-assolutista.

Il nucleo del dibattito, riassumibile nel fatto che le femministe sostengono che non sarebbe cambiato niente dalla presenza delle donne nelle istituzioni, mentre le anti-femministe si lamentano che tutto è peggiorato, questo dibattito purtroppo devia l’attenzione da quello che abbiamo veramente bisogno di pensare. Abbiamo da pensare che cosa è cambiato e che cosa non lo è, e come giudicare tutto questo senza appoggiarci alla misura maschile.

Arrivo alla parte seconda della mia relazione. Che cosa possiamo fare di questa modificazione e delle discussioni che l’hanno accompagnata?

Un punto di partenza possibile per questa analisi è di esaminare se gli sviluppi positivi di ci ho parlato hanno un limite. Perché in effetti a me sembra che oggi abbiano un limite.

Sembra che ci sia una “quota femminile” naturale, che porta a rallentare il processo di crescente visibilità e influenza femminile fermandolo ad un certo livello. A mio parere è di circa il 20 – 30 per cento – questa è la proporzione di donne presenti nelle istituzioni rispetto agli uomini, che viene considerata “normale” e percepita come qualcosa di equilibrato. Se ci sono meno donne, allora l’istituzione è vista come antiquata e troppo appesantita dalla presenza degli uomini. Se ci sono più donne, se raggiungono quasi la metà o un po’ di più, allora tutto il corpo istituzionale viene percepito come “dominato al femminile”.

Inoltre le donne assumono posizioni di potere molto spesso in situazioni di crisi, come Angela Merkel ha assunto la leadership del partito in un periodo di grave crisi della CDU. Così succede che, se le forme tradizionali non funzionano più, allora le donne hanno la loro occasione. È molto simile a quel che ha scritto Annarosa Buttarelli sulle sovrane: arriviamo al potere perché i tempi sono favorevoli, non perché è un nostro diritto. Sono d’accordo con la sua valutazione che questo non è uno svantaggio, ma un vantaggio, perché permette indipendenza simbolica da questo sistema maschile legalista. Ma significa anche che abbiamo ancora a che fare con una crisi dell’ordine simbolico maschile piuttosto che con un periodo in cui la crisi sia stata già superata e è venuto a crearsi qualcosa di nuovo.

Questo mi porta alla mia seconda proposta: pensare con attenzione a come si possono articolare nuove pratiche e a come si possano portare in modo stabile all’interno delle istituzioni. E questo significa che non bisogna tanto preoccuparsi di quante donne ci siano nelle istituzioni, ma della qualità della politica, che le donne portano o desiderano nelle istituzioni.

Il fatto è che moltissime donne avvertono la mancanza di qualità nelle istituzioni. Per dirlo con il libro di Diotima, nelle istituzioni c’è troppo potere e poca politica. Per quelle donne che vogliono più di una semplice parità, che vanno nelle istituzioni con un desiderio di politica, è molto stressante assumere cariche pubbliche. Il rischio di essere delusa è molto alto.

Particolarmente impressionante è stato il bilancio fatto sulle proprie scelte da parte di Bärbel Wartenberg-Potter, una vescova protestante, che aveva assunto questa carica per un impulso decisamente femminista, cioè con il supporto delle relazioni con altre donne. Quando poco tempo fa è andata in pensione, ha detto, guardando indietro alla sua vita, che, giudicando sul lungo periodo, in fondo lei aveva solo preso la carica di vescovo. L’incarico con le aspettative che gli erano associate era stato superiore alle sue forze, frustrando il desiderio di riempirlo di nuovi contenuti.

Questo fenomeno, per il quale la posizione istituzionale limita la possibilità di fare politica invece di aumentarla, succede quanto più si è in alto nella gerarchia dell’antico potere maschile. E così gli incarichi che si collocano ai massimi livelli risultano poco attraenti per molte donne, per le quali il possesso di status e di denaro non può compensare questi svantaggi. Mi pare sia per questo che si osserva una crescente riluttanza da parte di molte donne di concorrere per alti incarichi e cercare posizioni di potere di questo tipo.

Non sono solo i vecchi campionati ad ostacoli ad impedire alle donne di assumere cariche influenti nelle organizzazioni e nelle istituzioni, ma – e questo è il punto più preoccupante – vi è una crescente mancanza di volontà da parte delle donne stesse a seguire questa strada. Questo ha anche a che fare con il fatto che le esperienze negative e le esperienze di mancanza di influenza non sono oggetto di dibattito pubblico.

E’ vero che la critica femminista alla “istituzionalizzazione” della politica è sempre esistita, ma nel 1980 la lotta per la posizione istituzionale di potere era ancora, da parte delle donne, nuova ed entusiasmante. Allora ero una giovane reporter e spesso ho scritto articoli sulla prima donna in questa o quella funzione. Essere la prima sindaca, la prima rettora, la prima qualsiasi – o anche prepararsi per essere la prima – è grande. Essere la quinta – va bene, non seduce più nessuna. E forse il fatto è che le donne oggi sono più inclini a mettere in discussione il perché dovrebbero farlo. E così molte si chiedono: perché dovrei farmi questo?

Una domanda importante, anche perché ormai esistono molte scelte attraenti. Non abbiamo bisogno di potere per vivere una vita felice. Non è più la situazione nella quale le donne non avevano opzioni. Le donne oggi hanno molto sapere, hanno molte competenze, possono creare nicchie piacevoli, dove possono operare e anche fare un lavoro significativo. E questo sia nelle organizzazioni, fondando delle aziende, sia ai livelli più bassi delle istituzioni, dove viene svolto il lavoro più concreto, quotidiano, che molte donne trovano più interessante di quello che succede a livello della leadership.

In effetti, si può già parlare di una “ri-mascolinizzazione” delle istituzioni sociali. Questo oggi non è più un segno del patriarcato, ma paradossalmente una conseguenza della presenza delle donne in queste istituzioni. Tale situazione è ormai “normale” nel senso che ho descritto sopra: sappiamo come funzionano le cose e non ci piace.

E’ difficile trovare un modo di agire che vada bene in questa situazione, soprattutto se si prende sul serio il desiderio personale come motore di azione politica. Mi pare che l’unica possibilità di lavorare sul piacere della politica sia nel trovare forme di confronto e di vicinanza con il potere. Non nel senso di come ne parlano molte femministe, e cioè che anche alle donne può piacere lo status di una carica molto alta. Ma nel senso che i conflitti che nascono tra desiderio di politica e vicinanza al potere sono sì pesanti, ma che ne vale la pena. Si può vederli come un altro gioco: il gioco del cambiamento della realtà.

E’ quello, per esempio, che capita ad una mia amica che lavora sul tema della povertà. Lei vorrebbe tanto essere a capo di una organizzazione internazionale di lotta contro la povertà. Si era proposta due volte candidata, ma non è mai stata scelta perché gli altri membri la trovavano poco convenzionale. Normalmente non si dovrebbe concorrere più di una volta per tale posto, perché nella logica delle istituzioni questo è considerato una debolezza, qualcosa che non si fa. Ma lei ha deciso di continuare a presentarsi, perché ha veramente voglia di avere questa carica. Non perché desideri così tanto essere la presidente, ma perché è convinta che farebbe meglio le cose che ci sono da fare e che è lei la persona giusta per quella carica.

E’ questo il punto che credo sia cruciale: che le donne concorrano per i posti e i luoghi dove veramente vogliono essere, anche se non hanno una grande probabilità di arrivarci. E non invece candidarsi lì dove “mancano” le donne dal punto di vista delle quote.

Però per molte donne in Germania un rimedio molto allettante per limitare il surplus costante o crescente di presenza maschile sta nell’introdurre una quota fissa di donne. Per lo meno avere un tasso fisso renderebbe inevitabile, per così dire, la mediazione femminile. Tutti i partiti in Germania hanno già le quote, eccetto l’FDP e adesso il partito dei Pirati. E per l’economia già da molte parti viene richiesta la quota. Io sono sempre stata contraria alle quote per motivi che non devo spiegare qui. Ma ora che le quote sono già presenti nella realtà, probabilmente è importante capire come usarle al meglio.

Non è che non ci troviamo ad avere esperienza di questo strumento. Il partito dei Verdi in Germania ha una quota del 50 per cento per tutti i comitati e cariche già da 25 anni, e risulta ovvio quale effetto questo strumento non riesce ad avere: non riesce a portare un cambiamento nella struttura dei partiti in modo tale che le donne in questi luoghi si sentano a proprio agio come gli uomini. Ogni volta che parlo con qualsiasi donna dei Verdi, lei dice: “Se non avessimo le quote, anche da noi gli uomini sarebbero dappertutto in maggioranza”.

La nostra ministra della famiglia, Kristina Schröder, con grande dispiacere di molte femministe, è contro le quote. Un po’ di tempo fa lei ha fatto un confronto interessante. Ha paragonato la quota con il cortisone – non cura la malattia, ma sopprime i sintomi. Mi ha fatto venire in mente che forse è proprio quello che oggi potrebbe essere il compito delle quote. Se il paziente è così malato come lo sono le nostre istituzioni politiche attuali, allora forse in primo logo occorre diminuire i sintomi con il cortisone, in modo che ci sia per lo meno una possibilità di cura.

Tuttavia, ovviamente, non fa guarire. Quindi è necessario mantenere viva la consapevolezza che le quote sopprimono solo i sintomi ma non possono risolvere alcun problema e che – come il cortisone – hanno effetti collaterali pericolosi. L’effetto collaterale più pericoloso è che oscura la differenza sessuale, in questo caso segnalata dall’assenza delle donne dai luoghi del potere istituzionale. E in più può farci credere che non siamo più malati, che le istituzioni funzionano perfettamente.

L’illusione di molte donne politicamente attive è, a mio parere, di credere che una maggiore percentuale di donne porti automaticamente a cambiare il sistema. Non è vero, e la rimascolinizzazione della politica ufficiale ne è la prova. Se le donne entrano nelle strutture di potere, occorre che producano in modo attivo il cambiamento del sistema.

Insieme a delle amiche, che fanno politica nelle istituzioni, e che sono collegate con il pensiero della differenza, stiamo lavorando su questi temi da molto tempo. Due anni fa noi, che siamo le redattore del Forum Internet “Beziehungsweise Weiterdenken”, abbiamo organizzato una conferenza dal titolo “Visibili e influenti senza adattarsi”. Abbiamo invitato donne di posizioni diverse e di varie aree del lavoro, dentro e fuori le istituzioni, per condividere le loro esperienze.

Abbiamo stabilito che le donne femministe in posizioni di potere possono cambiare molto, se sensibili a queste questioni. Abbiamo raccolto esempi – e siamo state esempi noi stesse – della possibilità di cambiare le forme culturali, di introdurre nuove pratiche per rendere il mondo un po’ più in sintonia con i nostri desideri e idee. E abbiamo scoperto che è del tutto possibile utilizzare le risorse delle istituzioni per questo scopo. Questo succede – ovviamente, niente di nuovo – ogni volta che non sono gli uomini o gli statuti dell’istituzione a fare da misura delle nostre azioni, ma quando troviamo gli standard di misura nei rapporti con altre donne. E questo evita i contrasti. Solo una donna, che conosce il valore dell’autorità femminile, si trova nella condizione di poter incontrare gli uomini o le forze tradizionali all’interno di un istituto con un atteggiamento di apertura e di persuasione, tanto che ha delle buone possibilità di ottenere il riconoscimento di una delega, senza dover sempre contare sugli strumenti di potere. Ma l’istituzione nella quale ho un posto di potere non dovrebbe mai essere l’unico posto dove mi trovo “a casa”, usando una formula che abbiamo introdotto a questo proposito.

Questo percorso tuttavia ha i suoi limiti. Nelle nostre discussioni abbiamo notato che una cosa manca: la sostenibilità di lungo periodo. Abbiamo osservato cioè che molti di questi esempi di influenza positiva delle donne all’interno di una istituzione terminano nel momento in cui la donna in questione lascia il suo posto. Ad esempio si trasferisce o va in pensione. I cambiamenti culturali, tematici e di merito, che aveva avviato, non le sopravvivono. Hanno bisogno della sua presenza in prima persona. Si ha l’impressione che l’istituzione sia una massa inerte di fango, che viene spinta e modellata da una donna, che si dedica interamente a questo, e dal suo lavoro crescono delle foglie verdi. Ma appena lei se ne va, il fango rifluisce richiudendo i varchi e seppellendo tutto ciò che è stato piantato di nuovo.

Tuttavia è necessario incorporare nuove pratiche che rimangano a lungo, altrimenti l’istituzione non cambia davvero, e risulta come una fatica di Sisifo, frustrante per le donne. Ma come è possibile inserire nuove pratiche e diventare un nuovo punto di riferimento per altre donne che vengono dopo di noi, se siamo ben consapevoli anche delle circostanze che continuano ad essere negative nelle istituzioni – comportamenti spazzatura, gerarchie forti di potere, e così via? Mi sembra che per ora questa sia una domanda aperta. Ma è essenziale che prendiamo sul serio il malcontento di molte donne di fronte a questo dilemma e che lo portiamo ad una discussione pubblica.

Abbiamo individuato un passaggio fondamentale, che è quello di riuscire a trasmettere le proprie idee e problemi anche agli uomini. Questo viene fatto poco per ora ed è difficile – anche perché molti uomini pensano che, garantendo la parità formale alle donne la questione è chiusa. Spesso non riescono neanche ad immaginare che le donne vogliono qualcosa di più che semplicemente essere uguali a loro.

Un grande campo di sperimentazione è la Chiesa protestante, una istituzione che mi è famigliare e che conosco bene perché lavoro lì. Qui già da tempo le donne si sono impegnate fortemente per il potere istituzionale e per il suo funzionamento. E’ un’istituzione nella quale le donne hanno cercato molto presto di ancorare stabilmente i cambiamenti nella struttura.

Circa il 30 per cento delle parrocchie sono ora rette da donne, tra gli studenti di teologia quasi il 70 per cento sono donne. I cambiamenti che si sono avuti negli ultimi 30 anni sono enormi. Sono state inventate nuove liturgie di culto, è stato messo in discussione il modo di parlare di Dio come Padre, abbiamo finalmente messo in luce la tradizione delle donne dimenticate dalla storia e teologia della Chiesa, sono stati inventati nuovi canti, e così via.

E’ interessante notare come questo sviluppo abbia avuto luogo: sia dal basso che dall’alto, contemporaneamente in entrambe le direzioni. La chiesa non ha mai proposto le quote, ma il desiderio delle donne è stato così forte che l’accesso a posizioni di potere è stato quasi facile.

Ma tuttavia anche qui negli ultimi anni molte donne stanno perdendo il desiderio di impegnarsi nei livelli superiori della gerarchia – tanto che la percentuale delle donne presenti negli ordini sinodali sta scendendo.

Questa nuova assenza delle donne dagli organi di governo non ha più la caratteristica di un’esclusione, si tratta invece di un ritiro volontario, che è spesso giustificato proprio dalla volontà di fare qualcosa di diverso. E questo “Preferisco fare qualcosa di diverso” è oggi possibile grazie al movimento delle donne. Ci sono luoghi delle donne, ci sono liturgie delle donne, ci sono servizi delle donne, ci sono pratiche in aree in cui è predominante l’autorità femminile, mentre l’istituzione nel suo complesso rimane simbolicamente maschile.

Gli uomini non vanno nei “luoghi delle donne”, nella misura in cui le donne evitano i “luoghi degli uomini”. E a causa di questa spaccatura, non c’è più necessità di mediazione.

Ma il problema è che così le differenze non sono modificabili e vengono solo nascoste. E nascono così delle “società parallele” – una parola che in Germania di solito viene utilizzata per descrivere la spaccatura tra la “maggioranza della società” e il backgound degli immigrati, ma che a me sembra si adatti meglio alla frattura tra l’ordine maschile tradizionale nelle istituzioni e una nuova “cultura delle donne” – ormai all’interno stesso delle istituzioni.

Fino a che punto queste “società parallele” siano state rimosse sia dagli uni che dalle altre, è venuto alla luce cinque anni fa, quando è apparsa una nuova traduzione della Bibbia, la cosiddetta “Bibbia in lingua giusta”. L’esigenza di questa traduzione era emersa direttamente dal movimento delle donne, perché quanto più le donne cristiane erano impegnate nel cambiare la chiesa e le pratiche quotidiane, tanto più si sentivano insoddisfatte dei testi esistenti, e soprattutto delle traduzioni classiche della Bibbia, in cui le donne sono invisibili, Dio è sempre chiamato Signore o Padre, e non risulta esserci stata nessuna discepola o apostola. E così via.

Dato che ormai c’erano abbastanza donne influenti nelle posizioni chiave della chiesa, hanno avviato, insieme ad alcuni uomini che avevano un desiderio molto simile al loro, il progetto gigantesco di tradurre la Bibbia a partire dai risultati della teologia femminista. Nella terra di Martin Lutero è stato ovviamente un progetto altamente simbolico. La nuova traduzione della Bibbia non solo avrebbe reso visibili le donne, ma anche avrebbe cercato di estirpare le tendenze anti-giudaiche di traduzioni classiche, e di integrare prove scientifiche e sociali. A quel punto si misero al lavoro oltre quaranta professoresse di teologia assieme ad alcuni professori.

Quando questa nuova traduzione della Bibbia è uscita – con una grande festa – è venuto alla luce quanto era diventata profonda la divisione tra la corrente principale dell’ordine simbolico maschile e la “Chiesa delle donne”. Le recensioni sulle pagine dei giornali laici sono state caratterizzate da una palese incapacità di capire la situazione. Gli uomini e alcune donne che vi hanno scritto è come se avessero ricevuto un colpo in testa. A quanto pare non avevano mai sentito niente di tutti i cambiamenti avviati dalle donne.

Quei risultati, che per gli ambienti femminili della chiesa erano all’ordine del giorno già da molto tempo – come il fatto che ci fossero state delle apostole o la pratica di chiamare Dio con nomi femminili come “madre nostra” –, erano percepiti come scandalosi e completamente falsi. Le discussioni erano tese ed eccitate, e si è trattato di un vero e proprio “scontro di culture”. E’ apparso chiaro che fra la cultura influenzata dal femminismo e la cultura dominante si era venuta a creare una vera e propria società parallela.

Molte donne sono rimaste scioccate dalle reazioni ostili, ma io ero quasi felice, perché per una volta il conflitto è stato affrontato apertamente, un conflitto che a mio parere aveva bisogno di essere combattuto, perché molto necessario. E proprio a livello istituzionale. Con questa Bibbia le donne – e gli uomini che avevano compreso le intenzioni della teologia femminista – hanno messo in chiaro di aver preso una posizione di indipendenza simbolica dalle vecchie tradizioni, dove vige uno sguardo maschile molto ristretto. Tuttavia allo stesso tempo hanno mostrato di essere una parte importante di questa tradizione, con la facoltà di modificare parti importanti di essa e di riscriverle. E tutto ciò non fuori dall’istituzione o in “circoli di donne” isolati e separati, ma in nome e per conto di questa istituzione stessa, e anche con i soldi di questa istituzione – cosa che in tali contesti non è meno importante.

Io credo che sia questa la lezione da trarre da questo evento: che dagli scontri pubblici si può guadagnare. E in secondo luogo che è bene utilizzare le risorse di potere e di influenza che si ha non solo per ottenere consenso, ma anche per progetti che sfidano l’ordine esistente e negano apertamente la sua validità.

In modo da portare alla luce i conflitti, dove non si tratta più solo di chiedere la parità, ma di questioni fondamentali riguardanti la natura dell’istituzione: la legge, la scienza, la politica, la teologia.

Nell’esempio che ho portato una delle più grandi controversie riguardo alla “Bibbia in lingua giusta” era la parola “Signore” per Dio, che da tempo non è più usata dalla maggior parte delle donne, e che però per molti uomini e alcune donne è molto importante. Giocato anche sulla sfondo del nazismo, in cui l’enfasi sulla frase “Dio solo è il Signore” (e non Adolf Hitler) ha svolto un ruolo importante nella resistenza da parte della Chiesa. La maggior parte delle donne – e anch’io – pensa però che questa storia non sia una ragione sufficiente per continuare ad utilizzare la parola “Signore”, perché non si può parlare di Dio con la stessa parola che si utilizza per parlare del Signor Schmidt e del Signor Maier, che si incontrano per il quartiere. La confusione tra il divino e l’uomo maschio è il rischio più grande che notiamo in questo uso.

Una delle idee più brillanti della “Bibbia in lingua giusta” è che la parola “Signore” (cioè Adonai, che nella Bibbia originale è una parola che si usa perché non si deve dire il Nome di Dio) viene reso con diverse possibilità di traduzione: semplicemente Dio o l’Eterno o la Vivente e così via. In ogni capitolo, la traduttora o il traduttore ha optato per una espressione grafica continua, ma i punti sono segnati a colori, di modo che quando si leggono ognuna può scegliere in quale parola si desidera chiamare Dio.

Per molti questo rappresenta una spina nel fianco, perché temono che l’abbandono del “Dio al maschile” significhi un ammorbidimento della posizione cristiana. Il teologo Friedrich Wilhelm Graf è stato uno dei primi ad avvertire il pericolo di una “femminilizzazione” della chiesa. La chiesa sta perdendo la sua autorità, sostiene. Il suo timore è che nelle mani delle donne divenga una “chiesa coccole”, senza più l’impegno di provocare la società con analisi chiare, etiche, politiche. Si andrebbe in chiesa solo per “sentirsi bene” e per la sensazione di stare insieme. Questo chiaramente è dovuto al fatto che le donne, ovviamente, non vogliono solo una partecipazione “equa” alla chiesa, ma desiderano cambiare i suoi principi fondamentali – in questo caso il significato di Dio e la comprensione che abbiamo di lei/lui – per liberare Dio e la chiesa da un ordine simbolico maschile. Almeno fino a questo momento le donne sono riuscite a rendere pubblico questo conflitto e non semplicemente andarci attorno. Il modo di affrontare il dibattito attorno alla Bibbia in lingua giusta è per me un esempio positivo da cui si può trarre ispirazione per altre situazioni.

Tanto più che l’obiezione contro la “chiesa femminilizzata coccolona” va in una direzione simile a molte prese di posizione circa il cambiamento che ha portato la presenza delle donne sulla scena politica, anche se non viene detto così chiaro.

Una delle principali obiezioni contro l’influenza politica delle donne è che non seguono come criterio quello dei fatti oggettivi, ma della “sensibilità”. Le donne agirebbero in base alle loro preferenze personali e alle circostanze della propria vita e non in base ai duri fatti, e questo sarebbe pericoloso per la situazione sociale. A queste obiezioni io risponderei così. Sì, è esattamente così che fanno le donne, solo che lo descrivo in modo diverso. Per le donne sono meno importanti i principi e i dogmi, che indicano cosa sia la cosa necessaria o migliore in una situazione concreta. Prendere come misura la preferenza personale è pericoloso soltanto se ciò che è “necessario o meglio” venga inteso in senso egoistico. Gli uomini hanno messo al bando ogni tentazione del potere per scopi egoistici assieme alle preferenze personali attraverso l’appellarsi ai principi e al criterio dell’oggettività. Tuttavia questo principio dell’oggettività risulta essere di ostacolo in molte situazioni rispetto a ciò che è necessario fare. Questa è una difficoltà per molte donne che lavorano nelle istituzioni, e desiderano misurare “ciò che è giusto”. Questa mancanza di “lealtà ai principi” delle donne è spesso interpretata come debolezza, certamente a mio parere è un punto cruciale nei conflitti in tali situazioni.

Ma non vorrei fare previsioni sul futuro, a questo punto, perché il futuro non lo conosciamo. Credo che un ulteriore sviluppo dipenderà dalla nostra capacità di provocare conflitti sostanziali su questo tema in modo aperto e di inventare pratiche simboliche e reali che non abbiano paura dello scontro.

Quello che, per finire, vorrei sottolineare è che questo lavoro può coinvolgere donne di posizioni diverse: quelle che sono fuori dalle istituzioni come coloro che ne sono dentro. Non si sono posti migliori o peggiori per fare politica, scrive Fulvia Bandoli nel suo contributo al libro Potere e politica non sono la stessa cosa, ed è vero. È bene che alcune donne rimangano fuori dalle istituzioni nella misura in cui altre vogliano impegnarsi nel potere istituzionale. E il discutere su quale situazione sia meglio è del tutto inutile.

Purché esse siano in grado di fare da supporto le une alle altre – semplicemente parlando pubblicamente di quale sia la propria esperienza nell’uno e nell’altro contesto. Questo dibattito potrebbe aiutare le donne in posizione di potere, non perché faciliti lo scambio diretto con i luoghi istituzionali, ma perché permette di valutare le loro azioni in un contesto più ampio e di dargli un significato diverso. Forse allora non sarebbero così spesso frustrate, forse ci sarebbe nuovamente l’impegno ad avere più capacità di attrazione su coloro che hanno potere e sulle istituzioni politiche maschiliste.

Vi ringrazio per l’attenzione.

(Traduzione: Chiara Zamboni)